Vi siete mai chiesti quanto può costare il desiderio di scalare una vetta quasi impossibile? Eppure, tutti noi alimentiamo costantemente questo grande sogno, semplicemente vivendo…
Questa riflessione mi è stata suggerita da un intenso documentario trasmesso dal canale Focus a proposito della tragedia che esattamente dieci anni fa, tra il 1° e il 2 agosto, colpì una spedizione alpinistica impegnata nella conquista del K2 (con i suoi 8.609 metri di altitudine, la montagna più alta del mondo dopo l’Everest): la vetta venne raggiunta da 18 alpinisti, ma nove di essi morirono durante il ritorno, mentre altri due avevano già perso la vita in fase di ascesa.
Il 1º agosto 2008, dopo settimane di brutto tempo, circa trenta alpinisti di otto nazionalità (tra cui l’italiano Marco Confortola) partirono alle tre di notte dal campo 4 sulla Spalla del K2 per raggiungere la vetta. Il tempo, in quel momento, era perfetto. Durante la salita, però, il serbo Dren Mandic perse l’equilibrio nel tentativo di raggiungere un suo compagno e, non essendo assicurato, precipitò per quasi 200 metri, mentre uno dei suoi portatori precipitò a sua volta cercando di portare il corpo di Mandic al campo 4.
Nonostante il verificarsi del duplice incidente mortale, la spedizione non venne annullata, ma diversi problemi (scarsa attrezzatura usata per assicurare il percorso, errori nello stendere le corde fisse, assenza del più esperto dei portatori Shaheen Baig, tornato al campo base a causa di un malore) continuarono ad affliggerla. Il gruppo, quindi, arrivò in vetta molto tardi (Marco Confortola la raggiunse solo nel tardo pomeriggio). La sera del 1° agosto 2008, erano 18 gli alpinisti che, dopo aver raggiunto la vetta del K2, si preparavano alla discesa. Alle 20,30 circa, una slavina causò la terza vittima: il norvegese Rolf Bae, che scendeva senza aver raggiunto la cima. Poco dopo, il francese Hugues d’Aubarede morì scivolando lungo una parete a causa della stanchezza. La slavina che travolse Rolf Bae portò via con sé anche molte delle corde fisse sul cosiddetto Collo di bottiglia, cosa che rese la discesa molto più difficile. Alcuni scalatori continuarono comunque la discesa e arrivarono, tra le 23 e l’una di notte, al campo 4. A quell’ora, sulla montagna vi erano ancora nove scalatori. Tra questi, l’irlandese McDonnell, l’italiano Confortola e l’olandese van Rooijen decisero di aspettare l’alba bivaccando, mentre gli altri proseguirono lentamente nella discesa. Il mattino dopo, i tre scalatori che avevano preferito fermarsi per la notte ripresero il cammino. Su ciò che accadde in seguito, le versioni divergono: la sola certezza è che, a un certo punto, anche McDonnell perse la vita a causa di una valanga. Più tardi, intorno alle 15 del 2 agosto, un’ultima valanga travolse e uccise altri sei alpinisti (tre coreani, due nepalesi ed un pakistano). La valanga giunse fino al punto in cui si trovava Confortola, che tuttavia venne protetto dalle scariche di neve e ghiaccio dall’eroico Pemba Gyalje Sherpa, il quale vi si frappose col suo corpo.

Il documentario sottolineava come i partecipanti alla spedizione fossero stati giudicati severamente, da più parti, per aver deciso di proseguire la scalata nonostante la morte dei primi due alpinisti, durante l’ascesa alla vetta. Anch’io mi sono interrogata sulle ragioni di una scelta che, a prima vista, potrebbe sembrare quanto meno irrispettosa. In realtà, credo che esista una notevole differenza – che noi, molto spesso, non siamo in grado di cogliere – tra desideri dell’ego e aneliti dell’Anima: i primi possono sempre essere messi da parte qualora appaiano inutili o addirittura dannosi, mentre i secondi fanno parte del destino che ci siamo scelti e sono, dunque, irrinunciabili. E’ stato un futile desiderio o un sogno irrinunciabile quello che ha spinto i partecipanti alla spedizione a proseguire nonostante la tragedia già avvenuta? Non possiamo saperlo e, proprio per questo, non possiamo assolutamente giudicare il loro comportamento.
Probabilmente era destino che, per alcuni di loro, la vita terminasse proprio in quel modo, su quella mitica montagna. Marco Confortola, invece, ha affermato di aver udito la propria voce interiore intimargli, a un certo punto, di tornare al campo 4 più velocemente possibile: così facendo, si è guadagnato la sopravvivenza, dal momento che la valanga che ha travolto i suoi compagni non è riuscita a raggiungerlo. Evidentemente, il progetto della sua Anima consisteva nel ritornare a casa sano e salvo (a causa del congelamento, ha subíto l’amputazione di tutte le dita dei piedi, ma ciò non gli ha impedito di tornare a percorrere le sue amate montagne…). L’esperienza di Marco ci insegna quanto sia importante imparare a percepire i segnali che provengono dal nostro inconscio, poichè il loro compito è quello di mostrarci la strada che la nostra Anima ha deciso di percorrere prima ancora di incarnarsi.
Per quanto mi riguarda, alcuni sogni mi hanno fatto intuire di dover “puntare” ad una vita il più possibile lunga, felice e produttiva: ora dipende da me fare tutto ciò che mi è possibile per tramutare questa aspirazione in un concreto progetto di vita.